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AI MARGINI DELLA QUERELLE SULLA PRESCRIZIONE. LA DISMISURA DI BONAFEDE

AI MARGINI DELLA QUERELLE SULLA PRESCRIZIONE.

LA DISMISURA DI BONAFEDE

Dai tempi dell’inchiesta giudiziaria dei primi anni Novanta denominata «Mani Pulite», la presunzione di non colpevolezza, prevista dalla nostra Costituzione, come da tutte le costituzioni liberali, venne cancellata dalla mente dei più. Il circo mediatico-giudiziario — non a freddo, ma assecondando i bassi istinti della moltitudine— trattò, da quel momento in poi, ogni avviso di garanzia, un arresto deciso da una procura, come se fossero sentenze, e chi era sottoposto ad indagine giudiziaria era già ritenuto un colpevole. Bisogna dire che certi procuratori (non tutti) assecondavano questo andazzo. Lo facevano presentando al pubblico le proprie tesi come ipotesi di reato ritenendole, di converso, verità accertate, come se fossero sentenze.
Il problema è che la presunzione di non colpevolezza è un fondamento dello Stato liberale e, quando viene travolto nella consapevolezza dei più, ciò che si verifica è una regressione collettiva, un ritorno alla barbarie.
Queste riflessioni dovrebbero essere chiare ai giustizialisti, forcaioli, in tema di prescrizione.
Dovrebbero sapere che esiste uno status nel processo penale che contiene i diritti dell’imputato.
1-Ritenere che dopo la sentenza di primo grado la prescrizione non decorra, sia bloccata e senza- contestualmente- intervenire sulla ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 111 della Carta Costituzionale, importa che il processo non troverà mai fine. Si potrà sempre punire e la ricerca delle prove contro l’imputato senza limiti di tempo, porterà ad una giustizia medievale da caccia alle streghe.
2-Ha scritto recentemente Giovanni Maria Flick“Già a lume del buon senso, eliminare il vincolo della prescrizione e lo stimolo a celebrare i processi con la sua “minaccia”, sembra paradossalmente il modo più efficace per assicurare a quei processi una certamente “irragionevole” durata, nelle attuali e note condizioni di dissesto della giustizia penale; nonché – al tempo stesso e contraddittoriamente – per perseguire esigenze di immagine più che di efficienza e soprattutto di attuazione delle garanzie costituzionali di un giusto processo”.
3-La prescrizione è una causa di estinzione del reato, e quindi, detta volgarmente, di impunità.
Essa ubbidisce a due criteri. Il primo: non lasciare all’infinito l’imputato sulla graticola giudiziaria; il secondo: riconoscere che lo Stato ha perso l’interesse a punire un delitto commesso tanto tempo addietro, perché è cessato l’allarme sociale che aveva provocato, e perché il colpevole può ormai esser diventato una persona completamente diversa. Ora, la riforma Bonafede non incide su questi principi: la prescrizione rimane nel nostro ordinamento. Senonché, rimandare all’infinito la definizione del processo dopo la sentenza di primo grado, significa smentirli questi stessi principi. Perché delle due l’una: o si riconosce che l’interesse dello Stato a punire è eterno, e allora si elimina la prescrizione “tout court”. Oppure se ne riconferma l’ esistenza, ma allora la riforma ne contraddice i presupposti, proprio perché consente la punizione anche a decenni di distanza dal crimine. Ecco perché è irragionevole. Sono queste riflessioni di un Magistrato lucidissimo, Carlo Nordio.
4-Poter tenere senza alcun limite una persona nella condizione di “indagabile” o di sottoposta a giudizio viola garanzie essenziali nel rapporto tra libertà dell’individuo ed esercizio dei poteri dell’autorità nei suoi confronti, ha scritto Cesare Mirabelli (Messaggero 5/11/2018).
5-La riforma Bonafede ha l’obiettivo di bloccare completamente la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di assoluzione che di condanna. In altre parole, una volta emessa la sentenza di primo grado un procedimento penale potrebbe teoricamente durare all’infinito, fino alla morte degli imputati. La Corte d’appello, cioè il tribunale che si occupa del secondo grado, potrebbe dimenticarsi il fascicolo, ma anche dopo 20 o 30 anni l’imputato sarebbe ancora imputato: il processo potrebbe ricominciare in qualsiasi momento.
Ci si dimentica che la prescrizione è un istituto di garanzia a presidio del giusto processo (e della sua ragionevole durata), previsto dall’art. 111 della Costituzione. Abolire tale istituto, anziché intervenire sulle regole processuali e le disfunzioni del sistema che determinano la patologica lunghezza dei processi, significa togliere quel presidio che, nell’attuale sistema, costituisce l’ultimo argine per non avere processi infiniti: cioè, letteralmente, che non finiscono mai.
Se si volesse veramente avere una giustizia penale celere ed efficace si dovrebbe pensare ed approntare una riforma processuale organica, sia intervenendo su alcuni passaggi chiave delle fasi processuali, oltre che investire in risorse per adeguare strutture e organici del personale amministrativo e dei magistrati: in tal modo avremmo processi che potrebbero agilmente concludersi prima dello scadere dei già lunghissimi termini prescrizionali. Viceversa, abolire la prescrizione dopo la sentenza di primo grado (senza distinguere tra condanna e assoluzione), significherà, di fatto, avere migliaia di processi i cui appelli saranno celebrati dopo molti anni, così come il successivo terzo grado avanti la suprema Corte di Cassazione, senza più neppure la responsabilità dei giudici di evitare che il processo si prescriva. Nell’attuale sistema giudiziario, i cui limiti burocratici e organizzativi sono sotto gli occhi di tutti, questa sarà l’inevitabile realtà.
Per comprendere l’assurdità, oltre che l’ingiustizia di tale abolizione, si pensi al cittadino processato e assolto in primo grado, nei cui confronti la pubblica accusa proponga appello: questo cittadino, presunto innocente e ritenuto tale, rimarrebbe imputato e sotto processo per anni, senza limite, con tutte le gravi conseguenze di questo status. In barba alla tanto decantata civiltà giuridica italiana, si trasforma il processo stesso in pena.
Ha scritto Domenico Pulitanò“Le origini remote della nostra civiltà del diritto penale risiedono nel mito della trasformazione delle Erinni in Eumenidi, necessaria per una polis bene ordinata: integrare le antiche dee vendicatrici, ispiratrici di terrore, nella giustizia della città, che è giustizia della misura, dell’equilibrio, questo è l’obiettivo e la finalità del diritto”.
Ma il segno delle politiche penali populiste del Bonafede e suoi ispiratori è la dismisura.

Biagio Riccio

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