Sintomatico, al di là dell’impostazione marxista, è il titolo che ha dato Rosario Villari nel delineare la figura di Gramsci come meridionalista nella sua antologia << – Il Sud nella storia d’Italia – il mezzogiorno e la rivoluzione socialista >>. Già da questa impostazione sembra evidente e lampante che il problema nell’interpretazione gramsciana non è teso ad un << concretismo >>, ossia quell’atteggiamento tendente a sdoppiare e frantumare la <<questione meridionale>> in singoli e parziali aspetti; esso deve essere inquadrato in un’ottica più ampia e deve veder coinvolte tutte le forze del paese per una risoluzione: operai, contadini, intellettuali.
Gramsci innanzitutto parte da un presupposto di fondo nella sua analisi, per altro solo manoscritto incompiuto, riferendo la sua attenzione alla discussione e al contributo storiografico sul Risorgimento. Esso è stato una rivoluzione passiva o per essere più chiari una mancata rivoluzione agraria.
Escluso che i moderati potessero essere protagonisti del Risorgimento, l’unico che effettivamente cercò di dare, senza per altro riuscirvi, secondo Gramsci, un’impostazione più popolare alla sua azione di uomo politico e di cultura era Giuseppe Mazzini. Secondo Antonio Gramsci, Mazzini nel suo programma non poneva in primo piano la questione contadina, il problema operaio, cioè non creava quel consenso delle masse per una effettiva rivoluzione popolare; da qui il fallimento.
Non sembra opportuno in questo articolo tracciare l’intero dibattito storiografico intorno a questa tesi dell’intellettuale sardo, (vedi Rosario Romeo, Risorgimento e Capitalismo) ma è invece fondamentale capire il programma per la rivoluzione socialista.
Gramsci innanzitutto confida nel ruolo degli intellettuali dell’<< Ordine Nuovo >>; il loro programma, in sostanza, è quello di vedere accomunati gli operai delle industrie del Nord con i contadini del Sud. Discute perciò il ruolo per altro negativo degli intellettuali che fecero da tramite tra i contadini e i latifondisti, rivendicando chiaramente la posizione privilegiata dei proprietari terrieri; questi intellettuali secondo Gramsci sono stati Benedetto Croce e Giustino Fortunato.
<< In una cerchia più ampia di quella molto soffocante del blocco agrario essi hanno ottenuto che l’impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria. Uomini di grandissima cultura e intelligenza, sorti sul terreno tradizionale del mezzogiorno ma legati alla
cultura europea e quindi mondiale, essi avevano tutte le doti per dare una soddisfazione ai bisogni intellettuali dei più onesti rappresentanti della gioventù colta del mezzogiorno per consolarne le irrequiete velleità di rivolta contro le condizioni esistenti per indirizzarli secondo una linea media di serenità classica del pensiero e dell’azione… In Italia non potendoci essere una riforma religiosa di massa… si è verificata la sola riforma storicamente possibile con la filosofia di Croce: è stato mutato l’indirizzo, il metodo del pensiero, è stata costruita una nuova concezione del mondo che ha superato il cattolicesimo e ogni altra religione mitologica>>. (Alcuni temi della questione meridionale).
Questa funzione che Gramsci definisce nazionale ed europea del filosofo napoletano ha prodotto il distacco dagli intellettuali del mezzogiorno dalle masse contadine, facendoli partecipare alla cultura nazionale ed europea e facendoli assorbire dalla borghesia nazionale e quindi dal blocco agrario.
Gramsci però riconosce che gli intellettuali dell’<< Ordine Nuovo >> hanno subito l’influenza di G. Fortunato e di B. Croce, (egli lo definisce il più grande filosofo dell’occidente) ma hanno segnato una rottura completa con quella tradizione, ponendo il proletariato urbano come protagonista moderno della storia italiana e quindi << della quistione meridionale >>. Riconosce l’alta funzione che ha avuto Piero Gobetti con la sua Rivoluzione Liberale e chiaramente invita i giovani intellettuali dell’<< Ordine Nuovo>> a non sottovalutare << solo perché non è comunista >> il suo contributo.
Il comportamento dei contadini deve essere univoco ed omogeneo, deve superare l’interesse corporativo e settario, spogliarsi di ogni vocazione qualunquistica. I contadini meridionali sono incapaci di dare una espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni. Analogamente ciò deve avvenire anche negli operai. << Il metallurgico, il falegname, l’edile, devono non solo pensare come proletari ma devono fare ancora un passo avanti: devono pensare come operai membri di una classe che tende a dirigere i contadini e gli intellettuali, di una classe che può vincere e può costruire il socialismo… >>. Devono imporre il controllo sull’industria e rivolgere e utilizzare la stessa per la produzione di macchine agricole per i contadini, in modo che non vengano sfruttati come schiavi dalle banche latifondiste.
Instaurando la dittatura operaia, avendo in gestione le industrie e le banche, il proletariato rivolgerà questa enorme potenza e la utilizzerà per sostenere i contadini nella loro lotta contro i proprietari terrieri.
Gramsci non confida né tantomeno si affida al ruolo della borghesia e pone un esempio illuminante nell’indicare la non realizzazione del << sogno di Sonnino >>. Quando gli emigranti arrivarono nella madre patria non si attuò << la rivoluzione silenziosa >>; invece di investire, gli emigranti concentrarono le loro risorse nei titoli di Stato.
Ecco perché egli spera nella rivoluzione e nella creazione di quella << Repubblica Federale degli operai e dei contadini >> (vedi lettera per la fondazione dell’Unità 12-9-1923). Questa conquista rivoluzionaria del potere egli la concepisce come potere diffuso, articolato, decentrato, democratico, non centralistico. Al di fuori di questa concezione di potere non si potrebbe comprendere il meridionalismo gramsciano; essa né è il più importante presupposto >>. (R.Villari).
Gramsci ha sostanzialmente articolato come intellettuale marxista il suo pensiero nei Quaderni dal carcere. Proprio l’analisi molto acuta sugli intellettuali costituisce lo sviluppo e la compattezza della sua teoria.
Il problema è verificare quale conseguenza avrebbe comportato la rivoluzione del proletariato, come si sarebbe potuta attuare.
Lo pone sostanzialmente Romeo discutendo la tesi di Gramsci sul Risorgimento e lo sviluppo capitalistico in Italia dal 1861 al 1887. Romeo è del parere che la rivoluzione del proletariato avrebbe comportato l’estinguersi della nascente borghesia; egli infatti discute l’importanza della rivoluzione francese che avvenne dopo lo sviluppo della borghesia nel XVIII secolo. L’Italia invece non ancora aveva raggiunto l’unità, la sua economia era arretrata e soprattutto era priva di autonomia internazionale, ciò che riconosce lo stesso Gramsci.
Dopo la rivoluzione francese che arrestò il capitalismo agrario in Francia di ebbe successivamente l’ascesa del capitalismo finanziario industriale e commerciale. Questa è appunto << la condizione fondamentale che mancava in Italia e la cui assenza o debolezza caratterizza tutto lo sviluppo del capitalismo nostrano di fronte a quello francese. Una volta liquidato dalla rivoluzione contadina il più progredito capitalismo agrario e nella generale debolezza di quello industriale e mobiliare, il paese avrebbe subito un colpo d’arresto nella sua evoluzione a paese moderno, e non solo sul piano della vita economica, ma in genere dei rapporti civili e sociali >>. (Risorgimento e Capitalismo).
Qual che sia stato lo sviluppo di pensiero di Gramsci e le analisi storiche, è pur vero che il suo contributo è stato rilevante e che intellettuali di diverse impostazioni ne hanno giudicato l’indubbio valore e l’effettiva consistenza, ponendo talvolta in evidenza, come Giuseppe Galasso, l’originalità di talune sue tesi sulla genesi della questione meridionale.
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