Le condanne del maxiprocesso, seppur ridotte in appello, furono mantenute e ribadite in Cassazione: prima della strage di Capaci, Falcone vide che il suo capolavoro giuridico non fosse storpiato. Ma prima di Capaci morì, per l’invidia dei colleghi di Palermo, per l’arretratezza culturale dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura, di una classe politica che non ne aveva capito il suo inestimabile valore.
Non riuscì a diventare capo dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo, quando si dimise Caponnetto: gli fu preferito Antonino Meli.
Il criterio dell’anzianità prevaleva su quello della professionalità che per Falcone era indiscussa.
Neppure fu nominato per l’Alto Commissario Antimafia: fu scelto in questo caso Domenico Sica.
Era il 10 agosto 1988. Mancavano solo dieci mesi per arrivare alla punta più alta della congiura contro Falcone: l’attentato all’Addaura, coronamento di un’opera di demolizione portata avanti da anni e con ogni mezzo, anche con le “lettere del Corvo” ove fu accusato di brigare per essere il migliore.
Diventerà procuratore aggiunto di Piero Giammanco, ma gli sarà impedito di lavorare. Pur avendo ipotizzato la Superprocura non ne vide il varo: abbandonò la Sicilia, per diventare direttore degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, su iniziativa dell’allora ministro Martelli e del Presidente della Repubblica Cossiga. E fu accusato di essersi venduto. In un’intervista drammatica concessa a Repubblica il 20/07/1988 Paolo Borsellino denunciò che la lotta alla mafia non era più incoraggiante, perché il giudice Giovanni Falcone non era più il titolare delle grandi inchieste che iniziarono con il maxiprocesso.
”Ci sono seri tentativi per smantellare definitivamente il pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo. Stiamo rischiando di creare un pericoloso vuoto, stiamo tornando indietro di venti anni”.
Giovanni Falcone in una dolorosa lettera (13 settembre 1988) indirizzata al presidente del Tribunale di Palermo scrisse: “Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa, le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro. Ritenendo di compiere un servizio utile alla società ero pago del dovere compiuto e consapevole… Quando si è prospettato il problema della sostituzione del Consigliere Caponnetto ho avanzato la mia candidatura, ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e professionalità che l’ufficio, cui appartengo, aveva globalmente acquisito… In quella occasione ho dovuto registrare infami calunnie ed una campagna denigratoria di inaudita bassezza, cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo imponesse il silenzio…” Lasciò Palermo avvelenata per Roma.
Ci ritornò solo per morire.
Pubblicato anche sulle testate “Gli Stati Generali” (LINK) e su “Il ControVerso” (LINK)