Nota a provvedimento di sospensione dei termini legge antiusura n. 44/1999 art. 20 comma 7 della procura di Torino del 8.04.2014
Sommario
Avv.Biagio Riccio
Il provvedimento in commento affronta la tematica del potere del Pubblico Ministero di sospendere l’attività esecutiva scaturente da un credito che si suppone di natura usuraria.
Come è ben noto nell’anno 1999 è stata promulgata una legge la numero 44 che già dal suo titolo è di considerevole pregnanza: disposizioni concernenti il fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura. Essa è stata modificata dalla legge 27 gennaio 2012 n.3.
Ai nostri fini, di tal disposto normativo, interessa in modo particolare l’art.20 comma 7.
E indispensabile un excursus storico per comprendere le finalità della legge nata in favore delle vittime antiusura.
Gia’ con l’art. 5 del D.L. 31 dicembre 1991, n. 419, convertito dalla L. 18 febbraio 1992, n. 172, il legislatore aveva assunto il dichiarato obiettivo di “prevenire e reprimere il grave fenomeno dell’estorsione” e di “sostenere, con misure di carattere anche economico, l’attività delle categorie produttive che a causa del rifiuto opposto a richieste estorsive subiscono un danno patrimoniale”.
Venne pertanto istituito presso l’Istituto nazionale delle assicurazioni il “Fondo di solidarietà per le vittime dell’estorsione”, destinato a finanziare le “elargizioni” che l’art. 1 del medesimo decretolegge prevedeva che potessero, a determinate condizioni, essere concesse, “a titolo di contributo per il ristoro del pregiudizio subito”, in favore di coloro che, esercitando “un’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o comunque economica, ovvero una libera arte o professione”, avessero subito danni ai propri beni mobili od immobili, in conseguenza di fatti delittuosi commessi per indurli ad aderire a richieste di natura estorsiva.
Analoga è la ratio di politica criminale e, al contempo, di politica economica sottesa all’istituzione, ad opera dell’art. 14 della L. 7 marzo 1996, n. 108, del “Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura”, destinato a finanziare l’erogazione di “mutui senza interesse” in favore degli “esercenti un’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o comunque economica, ovvero una libera arte o professione”, vittime di uno o più delitti di usura.
Tutte queste provvidenze come è stato scritto (Paolo Celentano, Fallimento e moratorie in favore delle vittime dell’usura o di attività estorsive, in Fallimento, 2013, 1, 25) avevano l’intento di perseguire un duplice scopo: incoraggiare le vittime a collaborare con l’autorità giudiziaria,ai fini dell’individuazione e della condanna degli autori dei suddetti delitti e, al contempo, consentir alle prime di continuare a svolgere la loro attività economica o di intraprenderne una nuova in condizioni “sane”.
La legge del 1999 numero 44 art.20 statuiva tra l’altro il fondamentale principio del seguente tenore: “tutti coloro che abbiano chiesto o nel cui interesse siano state chieste le indicate provvidenze economiche possono altresì beneficiare delle moratorie previste dai primi quattro commi dell’art. 20, L. n. 44/1999”.
Infatti alle vittime dell’usura si concedeva
il beneficio di sospendere il pagamento delle rate di mutuo.
La proroga di trecento giorni per effettuare tal pagamento si determinava per tutte quelle rate il cui termine di scadenza fosse ricaduto entro l’anno: il dies a quo era da imputarsi dalla data dell’evento lesivo.
Per gli adempimenti fiscali il termine si allungava a tre anni.
Non era consentito a tutela della vittima dell’usura che corressero le prescrizioni e decadenze, anche esse da sospendersi per il termine di trecento giorni.
La condizione fondante era da rinvenirsi nel fatto che la prescrizione o la decadenza si concretassero entro un anno dall’evento lesivo.
Infine al quarto comma la legge prevedeva la sospensione per la durata di trecento giorni de “l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili e (de)i termini relativi a processi esecutivi mobiliari ed immobiliari, ivi comprese le vendite e le assegnazioni forzate”.
Questo comma era di un’importanza fondamentale perché sanciva il fatto che chi è stato vittima dell’usura ed in considerazione di essa aveva subito un pignoramento, poteva beneficiare di una sospensione ex lege di trecento giorni dell’attività espropriativa del creditore procedente.
E’ stato precisato che lo spirito della legge si incentrava sulla necessità di tutelare le vittime dell’usura.
La proroga nasceva dal fatto di evitare che, nel lasso di tempo che il legislatore ha ritenuto presumibilmente necessario per l’avvio e la conclusione del procedimento amministrativo avente ad oggetto la concessione e l’erogazione delle suddette provvidenze, i potenziali beneficiari di queste ultime avrebbero potuto veder peggiorare sensibilmente, se non addirittura irrimediabilmente, le proprie condizioni economiche. Da qui la sospensione.
L’art. 20 comma quattro della legge del 1999 conferiva il potere di sospensione al Prefetto.
Prima della riforma esso così statutiva: Sono sospesi per la medesima durata di cui al comma 1 (trecento giorni n.d.a) l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili e i termini relativi a processi esecutivi mobiliari ed immobiliari, ivi comprese le vendite e le assegnazioni forzate.
La sospensione dei termini di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 ha effetto a seguito del parere favorevole del prefetto competente per territorio, sentito il presidente del tribunale.
L’attuale formulazione dell’art. 20 dopo la legge del 2012 ha subito una radicale riforma: è il solo Pubblico Ministero, a prescindere dal parere del prefetto, a decretare se sussistano o meno i presupposti della sospensione.
Come è ben noto nell’anno 1999 è stata promulgata una legge la numero 44 che già dal suo titolo è di considerevole pregnanza: disposizioni concernenti il fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura. Essa è stata modificata dalla legge 27 gennaio 2012 n.3.
Ai nostri fini, di tal disposto normativo, interessa in modo particolare l’art.20 comma 7.
E indispensabile un excursus storico per comprendere le finalità della legge nata in favore delle vittime antiusura.
Gia’ con l’art. 5 del D.L. 31 dicembre 1991, n. 419, convertito dalla L. 18 febbraio 1992, n. 172, il legislatore aveva assunto il dichiarato obiettivo di “prevenire e reprimere il grave fenomeno dell’estorsione” e di “sostenere, con misure di carattere anche economico, l’attività delle categorie produttive che a causa del rifiuto opposto a richieste estorsive subiscono un danno patrimoniale”.
Venne pertanto istituito presso l’Istituto nazionale delle assicurazioni il “Fondo di solidarietà per le vittime dell’estorsione”, destinato a finanziare le “elargizioni” che l’art. 1 del medesimo decretolegge prevedeva che potessero, a determinate condizioni, essere concesse, “a titolo di contributo per il ristoro del pregiudizio subito”, in favore di coloro che, esercitando “un’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o comunque economica, ovvero una libera arte o professione”, avessero subito danni ai propri beni mobili od immobili, in conseguenza di fatti delittuosi commessi per indurli ad aderire a richieste di natura estorsiva.
Analoga è la ratio di politica criminale e, al contempo, di politica economica sottesa all’istituzione, ad opera dell’art. 14 della L. 7 marzo 1996, n. 108, del “Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura”, destinato a finanziare l’erogazione di “mutui senza interesse” in favore degli “esercenti un’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o comunque economica, ovvero una libera arte o professione”, vittime di uno o più delitti di usura.
Tutte queste provvidenze come è stato scritto (Paolo Celentano, Fallimento e moratorie in favore delle vittime dell’usura o di attività estorsive, in Fallimento, 2013, 1, 25) avevano l’intento di perseguire un duplice scopo: incoraggiare le vittime a collaborare con l’autorità giudiziaria,ai fini dell’individuazione e della condanna degli autori dei suddetti delitti e, al contempo, consentir alle prime di continuare a svolgere la loro attività economica o di intraprenderne una nuova in condizioni “sane”.
La legge del 1999 numero 44 art.20 statuiva tra l’altro il fondamentale principio del seguente tenore: “tutti coloro che abbiano chiesto o nel cui interesse siano state chieste le indicate provvidenze economiche possono altresì beneficiare delle moratorie previste dai primi quattro commi dell’art. 20, L. n. 44/1999”.
Infatti alle vittime dell’usura si concedeva
il beneficio di sospendere il pagamento delle rate di mutuo.
La proroga di trecento giorni per effettuare tal pagamento si determinava per tutte quelle rate il cui termine di scadenza fosse ricaduto entro l’anno: il dies a quo era da imputarsi dalla data dell’evento lesivo.
Per gli adempimenti fiscali il termine si allungava a tre anni.
Non era consentito a tutela della vittima dell’usura che corressero le prescrizioni e decadenze, anche esse da sospendersi per il termine di trecento giorni.
La condizione fondante era da rinvenirsi nel fatto che la prescrizione o la decadenza si concretassero entro un anno dall’evento lesivo.
Infine al quarto comma la legge prevedeva la sospensione per la durata di trecento giorni de “l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili e (de)i termini relativi a processi esecutivi mobiliari ed immobiliari, ivi comprese le vendite e le assegnazioni forzate”.
Questo comma era di un’importanza fondamentale perché sanciva il fatto che chi è stato vittima dell’usura ed in considerazione di essa aveva subito un pignoramento, poteva beneficiare di una sospensione ex lege di trecento giorni dell’attività espropriativa del creditore procedente.
E’ stato precisato che lo spirito della legge si incentrava sulla necessità di tutelare le vittime dell’usura.
La proroga nasceva dal fatto di evitare che, nel lasso di tempo che il legislatore ha ritenuto presumibilmente necessario per l’avvio e la conclusione del procedimento amministrativo avente ad oggetto la concessione e l’erogazione delle suddette provvidenze, i potenziali beneficiari di queste ultime avrebbero potuto veder peggiorare sensibilmente, se non addirittura irrimediabilmente, le proprie condizioni economiche. Da qui la sospensione.
L’art. 20 comma quattro della legge del 1999 conferiva il potere di sospensione al Prefetto.
Prima della riforma esso così statutiva: Sono sospesi per la medesima durata di cui al comma 1 (trecento giorni n.d.a) l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili e i termini relativi a processi esecutivi mobiliari ed immobiliari, ivi comprese le vendite e le assegnazioni forzate.
La sospensione dei termini di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 ha effetto a seguito del parere favorevole del prefetto competente per territorio, sentito il presidente del tribunale.
L’attuale formulazione dell’art. 20 dopo la legge del 2012 ha subito una radicale riforma: è il solo Pubblico Ministero, a prescindere dal parere del prefetto, a decretare se sussistano o meno i presupposti della sospensione.
L’assetto normativo così si delinea: Le sospensioni dei termini di cui ai commi 1, 3 e 4 e la proroga di cui al comma 2 hanno effetto a seguito del provvedimento favorevole del procuratore della Repubblica competente per le indagini in ordine ai delitti che hanno causato l’evento lesivo di cui all’articolo 3, comma 1. In presenza di più procedimenti penali che riguardano la medesima parte offesa, anche ai fini delle sospensioni e della proroga anzidette, è competente il procuratore della Repubblica del procedimento iniziato anteriormente.
Il prefetto, ricevuta la richiesta di elargizione di cui agli articoli 3, 5, 6 e 8, compila l’elenco delle procedure esecutive in corso a carico del richiedente e informa senza ritardo il procuratore della Repubblica competente, che trasmette il provvedimento al giudice, o ai giudici, dell’esecuzione entro sette giorni dalla comunicazione del prefetto.
Dunque quest’ultimo ha solo il compito di predisporre l’elenco della richiesta dell’elargizione effettuata con debita istanza dalla parte offesa e di indicare le procedure esecutive che quest’ultima abbia subito.
E’ compito del Procuratore della Repubblica competente decretare la sospensione dell’attività esecutiva e di trasmettere il relativo provvedimento al Giudice dell’esecuzione civile.
Sul piano pratico chi ha subito il reato di usura, depositata la querela, deve predisporre successivamente un’istanza al Prefetto competente per territorio, il quale indicherà le procedure esecutive della parte offesa.Il relativo elenco senza indugio è trasmesso successivamente al Pubblico Ministero,affinchè questi provveda sulla sospensione.
Con il precedente regime il Prefetto aveva un ruolo decisivo:quello di conferire un parere che ad ogge come visto non è più richiesto.
In realtà esso non aveva un valore vincolante, ma solo consultivo.
All’uopo intervenne la Corte Costituzionale che chiarì i termini della quaestio.
In primo luogo, con pronuncia n. 457 del 2005, la Corte delle Leggi dichiarò l’illegittimità dell’art. 20 comma 7 della disposizione de qua, ritenendo che la parola favorevole, di cui alla richiesta del parere del Prefetto, fosse da espungere dal dettato normativo.
Fu il Tribunale di Lecce a porre la questione di costituzionalità.
Il Giudice rimettente era scritto nell’ordinanza dubita, in riferimento all’art. 101 Cost., secondo comma, e art. 108 Cost., secondo comma, ed “al principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato”, della legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 7, della legge 23 febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), secondo cui la sospensione dei processi esecutivi per la durata di trecento giorni, prevista al comma 4, in favore dei soggetti che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata richiesta l’elargizione di cui agli artt. 3, 5, 6 e 8 della stessa legge, “ha effetto a seguito del parere favorevole del Prefetto competente per territorio, sentito il presidente del Tribunale”.
Per la Corte Costituzionale la questione sollevata era fondata sulla base dei seguenti assunti;
1. se si riconosce al Prefetto il potere di rendere preventivamente il parere favorevole, la violazione dei principi costituzionali posti a presidio dell’indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale appare palese, considerato che il Prefetto viene ad essere investito, dalla norma impugnata, del potere di decidere in ordine alle istanze di sospensione dei processi esecutivi promossi nei confronti delle vittime dell’usura; potere che, proprio perché incidente sul processo e, quindi, giurisdizionale, non può che spettare in via esclusiva all’autorità giudiziaria.
2. Se, dunque, contrasta con i parametri costituzionali invocati dal rimettente l’attribuzione al Prefetto del potere di decidere in merito alla particolare ipotesi di sospensione dei processi esecutivi prevista dalla norma impugnata, la norma stessa può, tuttavia, essere ricondotta a legittimità costituzionale mediante l’ablazione della parola “favorevole”.
3. Ciò è sufficiente, infatti, a restituire alla funzione del Prefetto un carattere propriamente consultivo, non vincolante, coerente con la natura giurisdizionale e non amministrativa del provvedimento richiesto, mentre il potere decisorio riguardo alla sussistenza dei presupposti per la sospensione del processo esecutivo, torna ad essere attribuito al Giudice, che ne è in base ai principi il naturale ed esclusivo titolare.
In ragione di tal pronuncia si poteva inequivocabilmente ritenere che il parere del Prefetto e la sua funzione, ai fini della concessione del provvedimento di sospensione, fossero estremamente ridotti o compressi nel seno dell’interpretazione della norma.
L’ordinanza in commento è originale perché in maniera netta e recisa riconduce alla sola autorità giurisdizionale ogni decisione in materia di sospensione dell’attività esecutiva, scaturita da una pretesa usuraria.
Secondo il Pubblico Ministero di Torino “prima della riforma, l’effettività della sospensione era collegata alla espressione di un “parere favorevole del prefetto competente per territorio, sentito il Presidente del Tribunale”, fermo restando che a disporre la moratoria era comunque il giudice dell’esecuzione con effetti dal momento della presentazione dell’istanza innanzi a sé e non dalla presentazione della richiesta in sede amministrativa (cfr. Cass, 24 gennaio 2007 n. 496).
L’articolato normativo, così come formulato, prevedeva invero un intimo nesso funzionale tra le cognizioni proprie del prefetto destinatario dell’istanza di accesso al fondo di solidarietà e le valutazioni del giudice dell’esecuzione, così che la delibazione giudiziale potesse opportunamente fondarsi su una stima del fumus di accoglimento dell’istanza concernente le provvidenze economiche, in .funzione delle quali, appunto, opera con portata cautelare l’istituto della sospensione.
Sulla capacità di influenza del parere prefettizio sulla regiudicanda normativamente espresso dal termine “favorevole” è intervenuta la Corte Costituzionale chel, valutando l’inammissibilità di una così intensa incursione potestativa del prefetto sul provvedimento decisorio del Giudice dell’Esecuzione, ha espunto per illegittimità costituzionale l’aggettivo anzidetto dalla disposizione del comma 7, restituendo in tal guisa all’A.G dell’esecuzione un più ampio spettro discrezionale sul quale fondare la decisione (cfr. Corte Cost, sent. n. 457/2005).
L’attuale obliterazione, dell’intervento consultivo del prefetto e la sua sostituzione con un atto del procuratore della Repubblica, normativamente qualificato non più come “parere ” bensì come “provvedimento” e a seguito del quale “hanno effetto” le sospensioni di legge, inevitabilmente pone problemi esegetici che, a fronte dell’istanza di cui in premessa, vanno risolti come segue.
In questo senso occorre delimitare l’ampiezza dei poteri oggi riconosciuti al procuratore della Repubblica, chiamato ad adottare un “provvedimento” che ove favorevole produce l’ effetto sospensivo di legge.
Ora, se si scorrono i lavori preparatori alla legge n. 3/2012 si comprende che la traslazione del termine ”parere” in quello di “provvedimento” esitata al passaggio del ddl da un ramo all’altro del Parlamento risente dell’esigenza di ricondurre il risultato decisorio ad una valutazione esclusiva e non più interlocutoria in ordine alla concedibilità della sospensione, attribuendo siffatta valutazione al pubblico ministero dell’indagine.
Ne è testuale riprova la coerente riproduzione del termine “provvedimento” neil’esordiente comma 7bis dell’ari, 20 cit, laddove è oggi previsto che, previa tempestiva informazione ricevuta dal prefetto circa l’elenco delle procedure esecutive in corso a carico del richiedente, il procuratore della Repubblica “trasmette il provvedimento al giudice, o ai giudici, dell’esecuzione entro sette giorni dalla comunicazione del prefetto”; adempimento, invero, di mera trasmissione, privo (anche terminologicamente) di alcuna appendice delibativa da parte del G.E. e che pertanto svela l’intento del legislatore della riforma di ascrivere alla stima dell’A.G, titolare delle indagini l’effetto sospensivo, da attuarsi inoltre nel più celere intervallo di tempo attraverso quella tempestiva trasmissione …
Il potere normativo all’A,G. di influire sulla sospensione dei termini e, per l’effetto, la sottrazione di esso alla sia più interlocutoria stima del prefetto, comportano una sostanziale risagomatura dell’istituto, non tanto in considerazione delle conseguenze dell’atto, che à e resta collegato all’esito sospensivo previsto dalla legge, quanto piuttosto del diverso ambito conoscitivo e dunque dei distinti interessi da ponderare sul quale fondare la delibazione sulla sospensione”.
Dunque solo il Pubblico Ministero è il titolare del potere di sospensione, riducendosi quello del Prefetto che deve solo trasmettere i dati delle diverse procedure cui è coinvolta la parte offesa.
Al cospetto del potere del Pubblico Ministero il Giudice dell’Esecuzione deve solo prenderne atto non potendo sollevare alcuna impugnazione:si deve dar seguito alla sospensione decretata.
In proposito è intervenuta la Corte Costituzionale(ordinanza del 6.12.2013 n.296) che non ha ravvisato un conflitto tra poteri dello Stato, riconoscendo al solo Pubblico Ministero l’effettivo potere di sospensione. La Consulta ha così ha statuito: È inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Giudice istruttore del Tribunale di Padova, sezione distaccata di Cittadella, nell’ambito di un procedimento civile, in relazione al provvedimento adottato, in data 12 dicembre 2012, dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Padova, in un procedimento penale, con il quale quest’ultimo, ai sensi dell’art. 20, comma 4, l. 23 febbraio 1999, n. 44, accogliendo l’istanza della parte convenuta nel procedimento civile n. 801 del 2012, ha disposto per la durata di trecento giorni a far data dalla presentazione dell’istanza all’ufficio del pubblico ministero (avvenuta in data 11 dicembre 2012) la sospensione dei termini di prescrizione e di quelli perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, relativi al detto procedimento civile. Premesso che il conflitto di attribuzione postula l’appartenenza degli organi o enti in conflitto a poteri diversi, nella specie sono coinvolti organi appartenenti, entrambi, al potere giudiziario, trattandosi di ricorso proposto da un giudice nei confronti del pubblico ministero; inoltre, poiché il provvedimento di sospensione dei termini, emesso ai sensi dell’art. 20, comma 7, l. n. 44 del 1999, non concernendo l’esercizio dell’azione penale, né attività di indagine ad essa finalizzata, non è espressione di attribuzioni costituzionali riconosciute al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 112 Cost., non è configurabile alcuna lesione delle attribuzioni costituzionali del giudice quale conseguenza del provvedimento di sospensione dei termini emesso dal pubblico ministero, dubitando, piuttosto, il ricorrente della legittimità costituzionale di una disposizione di legge che attribuisce un potere specifico al pubblico ministero, sicché difetta “?la materia?” stessa del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (sentt. nn. 463 del 1993, 420 del 1995, 110, 410 del 1998, 284 del 2006; ordd. nn. 87 del 1978, 244, 340 del 1999, 338 del 2007, 38 del 2008, 17 del 2013).
Il prefetto, ricevuta la richiesta di elargizione di cui agli articoli 3, 5, 6 e 8, compila l’elenco delle procedure esecutive in corso a carico del richiedente e informa senza ritardo il procuratore della Repubblica competente, che trasmette il provvedimento al giudice, o ai giudici, dell’esecuzione entro sette giorni dalla comunicazione del prefetto.
Dunque quest’ultimo ha solo il compito di predisporre l’elenco della richiesta dell’elargizione effettuata con debita istanza dalla parte offesa e di indicare le procedure esecutive che quest’ultima abbia subito.
E’ compito del Procuratore della Repubblica competente decretare la sospensione dell’attività esecutiva e di trasmettere il relativo provvedimento al Giudice dell’esecuzione civile.
Sul piano pratico chi ha subito il reato di usura, depositata la querela, deve predisporre successivamente un’istanza al Prefetto competente per territorio, il quale indicherà le procedure esecutive della parte offesa.Il relativo elenco senza indugio è trasmesso successivamente al Pubblico Ministero,affinchè questi provveda sulla sospensione.
Con il precedente regime il Prefetto aveva un ruolo decisivo:quello di conferire un parere che ad ogge come visto non è più richiesto.
In realtà esso non aveva un valore vincolante, ma solo consultivo.
All’uopo intervenne la Corte Costituzionale che chiarì i termini della quaestio.
In primo luogo, con pronuncia n. 457 del 2005, la Corte delle Leggi dichiarò l’illegittimità dell’art. 20 comma 7 della disposizione de qua, ritenendo che la parola favorevole, di cui alla richiesta del parere del Prefetto, fosse da espungere dal dettato normativo.
Fu il Tribunale di Lecce a porre la questione di costituzionalità.
Il Giudice rimettente era scritto nell’ordinanza dubita, in riferimento all’art. 101 Cost., secondo comma, e art. 108 Cost., secondo comma, ed “al principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato”, della legittimità costituzionale dell’art. 20, comma 7, della legge 23 febbraio 1999, n. 44 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), secondo cui la sospensione dei processi esecutivi per la durata di trecento giorni, prevista al comma 4, in favore dei soggetti che abbiano richiesto o nel cui interesse sia stata richiesta l’elargizione di cui agli artt. 3, 5, 6 e 8 della stessa legge, “ha effetto a seguito del parere favorevole del Prefetto competente per territorio, sentito il presidente del Tribunale”.
Per la Corte Costituzionale la questione sollevata era fondata sulla base dei seguenti assunti;
1. se si riconosce al Prefetto il potere di rendere preventivamente il parere favorevole, la violazione dei principi costituzionali posti a presidio dell’indipendenza ed autonomia della funzione giurisdizionale appare palese, considerato che il Prefetto viene ad essere investito, dalla norma impugnata, del potere di decidere in ordine alle istanze di sospensione dei processi esecutivi promossi nei confronti delle vittime dell’usura; potere che, proprio perché incidente sul processo e, quindi, giurisdizionale, non può che spettare in via esclusiva all’autorità giudiziaria.
2. Se, dunque, contrasta con i parametri costituzionali invocati dal rimettente l’attribuzione al Prefetto del potere di decidere in merito alla particolare ipotesi di sospensione dei processi esecutivi prevista dalla norma impugnata, la norma stessa può, tuttavia, essere ricondotta a legittimità costituzionale mediante l’ablazione della parola “favorevole”.
3. Ciò è sufficiente, infatti, a restituire alla funzione del Prefetto un carattere propriamente consultivo, non vincolante, coerente con la natura giurisdizionale e non amministrativa del provvedimento richiesto, mentre il potere decisorio riguardo alla sussistenza dei presupposti per la sospensione del processo esecutivo, torna ad essere attribuito al Giudice, che ne è in base ai principi il naturale ed esclusivo titolare.
In ragione di tal pronuncia si poteva inequivocabilmente ritenere che il parere del Prefetto e la sua funzione, ai fini della concessione del provvedimento di sospensione, fossero estremamente ridotti o compressi nel seno dell’interpretazione della norma.
L’ordinanza in commento è originale perché in maniera netta e recisa riconduce alla sola autorità giurisdizionale ogni decisione in materia di sospensione dell’attività esecutiva, scaturita da una pretesa usuraria.
Secondo il Pubblico Ministero di Torino “prima della riforma, l’effettività della sospensione era collegata alla espressione di un “parere favorevole del prefetto competente per territorio, sentito il Presidente del Tribunale”, fermo restando che a disporre la moratoria era comunque il giudice dell’esecuzione con effetti dal momento della presentazione dell’istanza innanzi a sé e non dalla presentazione della richiesta in sede amministrativa (cfr. Cass, 24 gennaio 2007 n. 496).
L’articolato normativo, così come formulato, prevedeva invero un intimo nesso funzionale tra le cognizioni proprie del prefetto destinatario dell’istanza di accesso al fondo di solidarietà e le valutazioni del giudice dell’esecuzione, così che la delibazione giudiziale potesse opportunamente fondarsi su una stima del fumus di accoglimento dell’istanza concernente le provvidenze economiche, in .funzione delle quali, appunto, opera con portata cautelare l’istituto della sospensione.
Sulla capacità di influenza del parere prefettizio sulla regiudicanda normativamente espresso dal termine “favorevole” è intervenuta la Corte Costituzionale chel, valutando l’inammissibilità di una così intensa incursione potestativa del prefetto sul provvedimento decisorio del Giudice dell’Esecuzione, ha espunto per illegittimità costituzionale l’aggettivo anzidetto dalla disposizione del comma 7, restituendo in tal guisa all’A.G dell’esecuzione un più ampio spettro discrezionale sul quale fondare la decisione (cfr. Corte Cost, sent. n. 457/2005).
L’attuale obliterazione, dell’intervento consultivo del prefetto e la sua sostituzione con un atto del procuratore della Repubblica, normativamente qualificato non più come “parere ” bensì come “provvedimento” e a seguito del quale “hanno effetto” le sospensioni di legge, inevitabilmente pone problemi esegetici che, a fronte dell’istanza di cui in premessa, vanno risolti come segue.
In questo senso occorre delimitare l’ampiezza dei poteri oggi riconosciuti al procuratore della Repubblica, chiamato ad adottare un “provvedimento” che ove favorevole produce l’ effetto sospensivo di legge.
Ora, se si scorrono i lavori preparatori alla legge n. 3/2012 si comprende che la traslazione del termine ”parere” in quello di “provvedimento” esitata al passaggio del ddl da un ramo all’altro del Parlamento risente dell’esigenza di ricondurre il risultato decisorio ad una valutazione esclusiva e non più interlocutoria in ordine alla concedibilità della sospensione, attribuendo siffatta valutazione al pubblico ministero dell’indagine.
Ne è testuale riprova la coerente riproduzione del termine “provvedimento” neil’esordiente comma 7bis dell’ari, 20 cit, laddove è oggi previsto che, previa tempestiva informazione ricevuta dal prefetto circa l’elenco delle procedure esecutive in corso a carico del richiedente, il procuratore della Repubblica “trasmette il provvedimento al giudice, o ai giudici, dell’esecuzione entro sette giorni dalla comunicazione del prefetto”; adempimento, invero, di mera trasmissione, privo (anche terminologicamente) di alcuna appendice delibativa da parte del G.E. e che pertanto svela l’intento del legislatore della riforma di ascrivere alla stima dell’A.G, titolare delle indagini l’effetto sospensivo, da attuarsi inoltre nel più celere intervallo di tempo attraverso quella tempestiva trasmissione …
Il potere normativo all’A,G. di influire sulla sospensione dei termini e, per l’effetto, la sottrazione di esso alla sia più interlocutoria stima del prefetto, comportano una sostanziale risagomatura dell’istituto, non tanto in considerazione delle conseguenze dell’atto, che à e resta collegato all’esito sospensivo previsto dalla legge, quanto piuttosto del diverso ambito conoscitivo e dunque dei distinti interessi da ponderare sul quale fondare la delibazione sulla sospensione”.
Dunque solo il Pubblico Ministero è il titolare del potere di sospensione, riducendosi quello del Prefetto che deve solo trasmettere i dati delle diverse procedure cui è coinvolta la parte offesa.
Al cospetto del potere del Pubblico Ministero il Giudice dell’Esecuzione deve solo prenderne atto non potendo sollevare alcuna impugnazione:si deve dar seguito alla sospensione decretata.
In proposito è intervenuta la Corte Costituzionale(ordinanza del 6.12.2013 n.296) che non ha ravvisato un conflitto tra poteri dello Stato, riconoscendo al solo Pubblico Ministero l’effettivo potere di sospensione. La Consulta ha così ha statuito: È inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Giudice istruttore del Tribunale di Padova, sezione distaccata di Cittadella, nell’ambito di un procedimento civile, in relazione al provvedimento adottato, in data 12 dicembre 2012, dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Padova, in un procedimento penale, con il quale quest’ultimo, ai sensi dell’art. 20, comma 4, l. 23 febbraio 1999, n. 44, accogliendo l’istanza della parte convenuta nel procedimento civile n. 801 del 2012, ha disposto per la durata di trecento giorni a far data dalla presentazione dell’istanza all’ufficio del pubblico ministero (avvenuta in data 11 dicembre 2012) la sospensione dei termini di prescrizione e di quelli perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, relativi al detto procedimento civile. Premesso che il conflitto di attribuzione postula l’appartenenza degli organi o enti in conflitto a poteri diversi, nella specie sono coinvolti organi appartenenti, entrambi, al potere giudiziario, trattandosi di ricorso proposto da un giudice nei confronti del pubblico ministero; inoltre, poiché il provvedimento di sospensione dei termini, emesso ai sensi dell’art. 20, comma 7, l. n. 44 del 1999, non concernendo l’esercizio dell’azione penale, né attività di indagine ad essa finalizzata, non è espressione di attribuzioni costituzionali riconosciute al pubblico ministero, ai sensi dell’art. 112 Cost., non è configurabile alcuna lesione delle attribuzioni costituzionali del giudice quale conseguenza del provvedimento di sospensione dei termini emesso dal pubblico ministero, dubitando, piuttosto, il ricorrente della legittimità costituzionale di una disposizione di legge che attribuisce un potere specifico al pubblico ministero, sicché difetta “?la materia?” stessa del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (sentt. nn. 463 del 1993, 420 del 1995, 110, 410 del 1998, 284 del 2006; ordd. nn. 87 del 1978, 244, 340 del 1999, 338 del 2007, 38 del 2008, 17 del 2013).
La legge nella sua attuale formulazione assume un’importanza decisiva e dirimente anche per un’altra prospettiva che attiene alla sua applicazione.Si pone la quaestio se essa si applichi o meno alla procedura fallimentare.
“Il problema dell’applicabilità delle moratorie previste dall’art. 20 della L. n. 44 del 1999, e, in particolare, di quelle di cui al suo quarto comma alle procedure fallimentari o, per meglio dire, ai subprocedimenti concernenti la liquidazione fallimentare è stato risolto positivamente dalla Corte di cassazione, con una delle sentenze in commento, la n. 8434 del 2012, sulla base di considerazioni di carattere generale in ordine alla necessità di un’interpretazione estensiva della previsione normativa che paiono integralmente condivisibili e che appare persino inutile riepilogare nel dettaglio. L’applicazione della sospensione di cui al quarto comma dell’art. 20 della L. n. 44 del 1999 alle sole procedure esecutive individuali, che talvolta possono essere iniziate o proseguite anche in costanza del fallimento del debitore, e non anche ai subprocedimenti di liquidazione dei beni del debitore che, con il medesimo fine, quando non anche la medesima struttura, si inseriscono nell’ambito delle procedure fallimentari, sarebbe risultata infatti priva di qualsiasi giustificazione logica e dunque in definitiva costituzionalmente illegittima, a maggior ragione se si considera che le vittime delle attività estorsive od usurarie sono molto spesso imprenditori assoggettabili al fallimento.
Peraltro, come opportunamente segnalato dalla Corte di cassazione nella motivazione della sentenza da ultimo citata, la bontà dell’esposta conclusione è ancor più evidente ora che con le modifiche apportate dagli artt. 1 e 2 della L. n. 3 del 2012 all’art. 14 della L. n. 108 del 1996 e, rispettivamente, all’art. 3 della L. n. 44 del 1999 s’è esplicitamente riconosciuto che le provvidenze economiche previste da queste ultime due leggi in favore dei soggetti che siano rimasti vittime dell’usura o di attività estorsive possono essere accordate a questi ultimi anche ove siano stati dichiarati falliti ed in pendenza della procedura fallimentare conseguentemente aperta nei loro confronti.
La questione, nelle sue linee generali ed in relazione sia all’attuale che al precedente quadro normativo, può pertanto reputarsi definitivamente risolta.
Va tuttavia segnalato che la sospensione di trecento giorni prevista dal quarto comma dell’art. 20 della legge n. 44 del 1999, secondo l’interpretazione che di tale previsione ha finora dato la Corte di cassazione in relazione alle procedure esecutive individuali:
a) non può essere disposta dal giudice d’ufficio, ma solo ad istanza del suo beneficiario;
b) comincia a decorrere nel momento in cui quest’ultimo la invoca;
c) non riguarda direttamente le procedure esecutive unitariamente considerate, fatta eccezione per il caso di quelle aventi ad oggetto l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili, bensì soltanto i termini di quelle mobiliari ed immobiliari, nonché le vendite e le assegnazioni forzate (e non solo i relativi termini), non consentendo pertanto il rinvio del compimento degli atti processuali (diversi da quelli relativi ai procedimenti di esecuzione per rilascio e dalle vendite e dalle assegnazioni forzate) per i quali non sono previsti termini.
Dovrebbe invece riguardare anche i termini dei procedimenti endofallimentari di accertamento del passivo e di ripartizione dell’attivo” (Fallimento e moratorie in favore delle vittime dell’usura o di attività estorsive, Paolo Celentano, in Fallimento, 2013, 1, 25).
La portata del decisum non ancora ha avuto il suo riflesso proprio nell’ambito delle procedure fallimentari. Se infatti i giudici delegati comprendessero che a volte i crediti delle banche sono intrisi di usura, il fallimento potrebbe essere sospeso dal momento che, trasmessi gli atti al PM ,è quest’ultimo che deve delibare la sussistenza del reato con la conseguenza anche di un rideterminazione del fallimento in attesa degli esiti dell’indagine penale.
Cardito, 25.07.2014
“Il problema dell’applicabilità delle moratorie previste dall’art. 20 della L. n. 44 del 1999, e, in particolare, di quelle di cui al suo quarto comma alle procedure fallimentari o, per meglio dire, ai subprocedimenti concernenti la liquidazione fallimentare è stato risolto positivamente dalla Corte di cassazione, con una delle sentenze in commento, la n. 8434 del 2012, sulla base di considerazioni di carattere generale in ordine alla necessità di un’interpretazione estensiva della previsione normativa che paiono integralmente condivisibili e che appare persino inutile riepilogare nel dettaglio. L’applicazione della sospensione di cui al quarto comma dell’art. 20 della L. n. 44 del 1999 alle sole procedure esecutive individuali, che talvolta possono essere iniziate o proseguite anche in costanza del fallimento del debitore, e non anche ai subprocedimenti di liquidazione dei beni del debitore che, con il medesimo fine, quando non anche la medesima struttura, si inseriscono nell’ambito delle procedure fallimentari, sarebbe risultata infatti priva di qualsiasi giustificazione logica e dunque in definitiva costituzionalmente illegittima, a maggior ragione se si considera che le vittime delle attività estorsive od usurarie sono molto spesso imprenditori assoggettabili al fallimento.
Peraltro, come opportunamente segnalato dalla Corte di cassazione nella motivazione della sentenza da ultimo citata, la bontà dell’esposta conclusione è ancor più evidente ora che con le modifiche apportate dagli artt. 1 e 2 della L. n. 3 del 2012 all’art. 14 della L. n. 108 del 1996 e, rispettivamente, all’art. 3 della L. n. 44 del 1999 s’è esplicitamente riconosciuto che le provvidenze economiche previste da queste ultime due leggi in favore dei soggetti che siano rimasti vittime dell’usura o di attività estorsive possono essere accordate a questi ultimi anche ove siano stati dichiarati falliti ed in pendenza della procedura fallimentare conseguentemente aperta nei loro confronti.
La questione, nelle sue linee generali ed in relazione sia all’attuale che al precedente quadro normativo, può pertanto reputarsi definitivamente risolta.
Va tuttavia segnalato che la sospensione di trecento giorni prevista dal quarto comma dell’art. 20 della legge n. 44 del 1999, secondo l’interpretazione che di tale previsione ha finora dato la Corte di cassazione in relazione alle procedure esecutive individuali:
a) non può essere disposta dal giudice d’ufficio, ma solo ad istanza del suo beneficiario;
b) comincia a decorrere nel momento in cui quest’ultimo la invoca;
c) non riguarda direttamente le procedure esecutive unitariamente considerate, fatta eccezione per il caso di quelle aventi ad oggetto l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio di immobili, bensì soltanto i termini di quelle mobiliari ed immobiliari, nonché le vendite e le assegnazioni forzate (e non solo i relativi termini), non consentendo pertanto il rinvio del compimento degli atti processuali (diversi da quelli relativi ai procedimenti di esecuzione per rilascio e dalle vendite e dalle assegnazioni forzate) per i quali non sono previsti termini.
Dovrebbe invece riguardare anche i termini dei procedimenti endofallimentari di accertamento del passivo e di ripartizione dell’attivo” (Fallimento e moratorie in favore delle vittime dell’usura o di attività estorsive, Paolo Celentano, in Fallimento, 2013, 1, 25).
La portata del decisum non ancora ha avuto il suo riflesso proprio nell’ambito delle procedure fallimentari. Se infatti i giudici delegati comprendessero che a volte i crediti delle banche sono intrisi di usura, il fallimento potrebbe essere sospeso dal momento che, trasmessi gli atti al PM ,è quest’ultimo che deve delibare la sussistenza del reato con la conseguenza anche di un rideterminazione del fallimento in attesa degli esiti dell’indagine penale.
Cardito, 25.07.2014