Nota a sentenza del tribunale di S. Maria Capua Vetere, sezione distaccata di Aversa, 22.03.2013

Sommario

Avv.Biagio Riccio
Il caso contemplato in sentenza presenta molteplici motivi di riflessione.
In primo luogo occorre stabilire se ricorra la competenza del Tribunale fallimentare o quella del giudice ordinario, quando sia stata proposta un’azione di risoluzione contrattuale nei confronti di un soggetto che sia stato dichiarato fallito.
Nel caso scrutinato la domanda di risoluzione, tra l’altro trascritta, è stata proposta nei confronti di una compagine che successivamente, in corso di causa, è stata dichiarata fallita.
L’attrice chiedeva, infatti, la risoluzione per inadempimento di un contratto preliminare di vendita, avendo versato metà del prezzo,senza che la promittente venditrice adempisse al suo obbligo di trasferire la proprietà del cespite. Reclamava, perciò, la restituzione del doppio della caparra oltre il risarcimento del danno.
La relativa domanda, ex art. 2652 c.c ,veniva trascritta sul bene compravenduto.
Nel corso del giudizio veniva dichiarata fallita la società convenuta e perciò operava la riassunzione contro la curatela.
Siamo al focus della questione.
Rimane ferma, in questo caso, la competenza del giudice ordinario o invece affiora quella del Tribunale fallimentare ?
La Cassazione con pronunce di univoco tenore ha ritenuto che ” l’istanza di risoluzione di un contratto di compravendita per inadempimento non trova ostacolo nella sopravvenienza del fallimento del convenuto, qualora essa risulti quesita, prima della sentenza dichiarativa del fallimento stesso, attraverso la trascrizione della relativa domanda giudiziale, non potendosi essa legittimamente iscrivere, ex art. 24 l. fall., nel novero della “azioni derivanti dal fallimento” assoggettate alla “vis actractiva” della relativa procedura. L’eventuale (e connessa) domanda di accertamento del diritto al risarcimento del danno, avendo ad oggetto una pretesa necessariamente assoggettata alla regola del concorso, non può, per converso, sopravvivere, in sede ordinaria, alla dichiarazione di fallimento, e deve essere fatta valere, previa separazione delle cause, nelle forme di cui agli art. 93 ss. l. fall., mentre la domanda principale di risoluzione prosegue, del tutto legittimamente, con il rito ordinario per la relativa decisione nel merito (Cass. 09/12/1998 n° 12396; nel medesimo senso cfr. Cass. 1648/94 e Cass. 4045/1983).
E’ risaputo che il Tribunale fallimentare ha la competenza per materia solo in ordine a quelle azioni che da esso derivano .
Con tale espressione si suol ritenere che rientrano nella competenza del tribunale fallimentare e si applica il relativo rito speciale, solo per le azioni a tutela della massa e della par condicio creditorum: derivano dal fallimento, perché tendono a ricostruire il patrimonio del debitore: si pensi alla revocatoria fallimentare.
Il rapporto di derivazione è stato scritto(Provinciali pag. 670) va inteso in senso specifico e non già generico: non si possono comprendere gli atti che siano caratterizzati da una connessione puramente occasionale ; deve trattarsi di azioni che abbiano origine e fondamento nel fallimento e nelle norme di diritto che ne formano la disciplina.
La connessione che sta al fondamento della vis actractiva esercitata dal tribunale fallimentare non consiste in un rapporto di mera occasionalità , ma nella dipendenza che la lite ha rispetto al fallimento, al fine di tutelare l’unitarietà dell’esecuzione concorsuale e la parità di trattamento dei creditori.
Deve trattarsi di un’azione che nel fallimento trovi origine ontologica cioè causa determinante ed efficiente per il raggiungimento dei fini istituzionali del processo stesso.
La ripartizione della competenza fra Tribunale ordinario e quello fallimentare è data dall’influenza o meno del fallimento sul rapporto litigioso e dalla necessità dell’attuazione della par condicio creditorum in ordine alla controversia in esame .
Ove invece la connessione con il fallimento della controversia sia di mera occasionalità le azioni anche se promosse o proseguite contro il curatore sono sottratte alla competenza del Tribunale fallimentare.
La conferma di quanto s’è fin qui detto, peraltro, è conferita dall’attuale precetto dell’art. 24 l. fall., che seppure ha subito, per le riforme succedutesi, diverse ripiegature ha tuttavia conservato la sua originaria struttura costitutiva: il Tribunale fallimentare è competente per tutte le azioni che ne (dal fallimento) derivano, qualunque ne sia il valore.
Il piano dettato della norma impone di ritenere che l’azione di accertamento di un diritto, o di natura costitutiva quale la risoluzione­oggetto dell’esaminato giudizio­non “deriva” dal fallimento, e perciò non può essere esperita nel suo seno.
Infatti la “derivazione”, che è espressione fondamentale nel precetto normativo, è da identificare nella peculiare finalizzazione teleologica che caratterizza le azioni di massa, le sole che possono competere al curatore: si tratta della ricostruzione della massa, e dell’acquisizione ad essa di ogni cespite economico fuoriuscito dal patrimonio del fallito, in spregio della par condicio creditorum .
È stato scritto: “da un punto di vista logico non vi è motivo, in linea di principio, di sottrarre al giudice naturale le liti per le quali nessun vantaggio alla procedura deriva dal loro svolgimento nel foro fallimentare […] le azioni sulla cui natura e fondamento il fallimento non esplichi alcuna influenza, quanto alla loro modalità di esercizio, non possono essere enucleate nella procedura concorsuale […] si è evidenziato che le ragioni della vis actractiva devono ricercarsi nei fini particolari del fallimento, alla cui realizzazione si rende necessaria una deroga alle norme comuni di competenza […] La forza attrattiva del foro fallimentare deve essere correlata agli elementi costitutivi dell’azione e, dunque, alla causa petendi ed al petitum che, di certo, ineriscono alle sole azioni che nella procedura trovano la loro fonte di legittimazione” (Le procedure concorsuali ­ il fallimento, trattato a cura di G. Ragusa Maggiore e C. Costa, Torino 1997, pag. 376 e segg.).
Tali assunti sono assentiti da recente giurisprudenza di merito secondo cui “ai sensi dell’art. 72, R.D. n. 267/1942 (legge fallimentare), le azioni di risoluzione proposte prima dell’apertura del fallimento restano soggette alla cognizione del giudice ordinario, con opponibilità della sentenza alla massa (proprio in quanto già pendenti), e ciò anche quando l’attore abbia proposto domande di risarcimento del danno e di restituzione, nella cui eventualità si dovrà far ricorso al giudice delegato secondo il rito della verificazione del passivo” (Trib. Salerno, 01­02­2013).
Del resto il legislatore ha recepito lo sforzo della giurisprudenza e proprio all’art.72 della nuova legge fallimentare ha statuito che: “L’azione di risoluzione del contratto promossa prima del fallimento nei confronti della parte inadempiente spiega i suoi effetti nei confronti del curatore, fatta salva, nei casi previsti, l’efficacia della trascrizione della domanda; se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V” .
Altra problematica affrontata in sentenza attiene al patto commissorio che l’originaria convenuta ha eccepito a fronte della richiesta attrice di adempimento contrattuale del preliminare.
Per parte avversa il contratto preliminare intercorso tra le parti simulava un prestito,dunque un mutuo, che l’attrice avrebbe confezionato con la convenuta. Pertanto alla luce delle disposizioni contenute nel seno dell’art.2744 c.c il contratto de quo doveva dichiararsi nullo per contrarietà a norme imperative.
Il pactum sceleris cosi si sarebbe dispiegato: l’attrice, in veste di mutuante, avrebbe concesso un prestito alla convenuta mutuataria: per simularlo avrebbe confezionato un contratto preliminare di vendita, in veste di promittente acquirente. Il prezzo pagato, in realtà, costituisce, per patto occulto, il valore del prestito effettuato; se dunque alla data convenuta per la redazione dell’atto pubblico non si fosse verificata la restituzione del tantundem generis et qualitatis , dunque la somma prestata non fosse ritornata nelle mani del mutuante, il promittente compratore avrebbe conseguito la titolarità dell’immobile, il cui valore di certo sarebbe superiore al prezzo pagato.
Perciò l’attrice non avrebbe potuto invocare la risoluzione contrattuale con il risarcimento del danno, bensì solo la restituzione del prezzo per il disvelamento del sotteso mutuo.
La migliore dottrina, per il caso specie, qualifica come di natura autonoma il patto commissorio, al fine di differenziarlo dalle applicazioni specifiche previste dall’art. 2744 c.c.
La costruzione teorica di questo affascinante istituto giuridico è stata sapientemente data da Fulvio Gigliotti nella collana Il diritto privato oggi , curata da Paolo Cendon, Milano 1999, pagina 10 e segg.
Nel caso in esame si sarebbe realizzata non la classica figura prevista dall’articolo 2744 c.c., bensì il cosiddetto patto commissorio autonomo, “espressione con la quale si suole fare riferimento a quegli accordi tra debitore e creditore, con cui si conviene che, in conseguenza dell’inadempimento dell’obbligazione, la proprietà di un bene determinato del debitore si trasferisca in capo al creditore, in ragione di altri accordi sospensivamente condizionati; ovvero che la proprietà della cosa si consolidi in capo al creditore in caso di inadempimento, o l’acquisto si risolva in caso di adempimento. L’autonomia della convenzione de qua, rispetto all’ipotesi dell’art. 2744 c.c., risiede nell’inesistenza sul bene promesso di un diritto reale (pegno o ipoteca) o personale (anticresi) di garanzia. L’accordo si riferisce, infatti, ad un bene libero, la cui disposizione, in funzione di garanzia, avviene unicamente in base ed a mezzo della descritta pattuizione, diretta all’attribuzione della proprietà del bene a vantaggio del creditore rimasto insoddisfatto” .
La dottrina e la giurisprudenza delineano la fattispecie del patto commissorio autonomo, quando si collegano teleologicamente due negozi: un mutuo ed una compravendita.
Il mutuante, l’attrice nel nostro caso, elargisce il prestito per la cui restituzione, in mancanza del dovuto, ottiene la proprietà del bene in capo al mutuatario convenuto. Sul piano probatorio si esige che:
­ i due negozi siano necessariamente contestuali;
­ deve essere provata una evidente sproporzione tra le prestazioni;
­ deve essere prevista la scadenza della restituzione del prestito;
­ una condizione risolutiva o sospensiva;
­ chiaro deve essere che, in caso di mancata restituzione della somma mutuata, si consegue in capo al creditore mutuante e fittizio compratore la proprietà del bene.
Questi sono gli archetipi del patto commissorio autonomo che, nella vicenda di cui è causa, per il giusdicente non sono stati dimostrati.
L’onere della prova in ordine al patto commissorio autonomo è rigoroso, perché chi ne sostiene la coeva stipulazione deve spiegare, come detto:
­ il tempo in cui la somma è elargita;
­ il tasso di interesse che va corrisposto all’atto della restituzione, oltre la somma data in erogazione;
­ il tempo della restituzione;
­ che cosa sarebbe avvenuto se non si fosse verificata la detta restituzione;
­ in mancanza di termine va tuttavia indicata una condizione sospensiva o risolutiva, al verificarsi della quale ricorre come momento comminatorio l’acquisizione in proprietà.
In pratica, secondo quanto hanno stabilito le Sezioni Unite con una sentenza storica, si può ritenere che: “È nulla la vendita con patto di riscatto o di retrovendita ove le parti, nel comune intento di vincolare il bene a garanzia ed in funzione del rapporto di mutuo sottostante, subordinino gli effetti del trasferimento, apparentemente immediato, all’adempimento del debitore­venditore” (Cass. Civ., SSUU, 03/04/1989 n° 1611).
Si legge in motivazione: “in epoca più recente la terza sezione di questa Corte, nel riesaminare con sentenza n° 3800 del 1983, nel loro insieme, le ipotesi di vendita con effetti traslativi immediati accompagnata da patto di riscatto o sottoposta a condizione risolutiva ovvero con patto di retrovendita, se stipulata allo scopo di costituire una garanzia reale a favore del creditore, ha rilevato che tali convenzioni sono in realtà permeate dall’intento primario delle parti di vincolare il bene a garanzia del mutuo, al pari della vendita sottoposta a condizione sospensiva. La volontà delle parti infatti, ancorché formalmente diretta al conseguimento del bene, è subordinata alla finalità di costituire una garanzia, con la conseguenza che appare ingiustificato sottoporre le diverse fattispecie negoziali a diverse discipline. Le parti dunque hanno il reale intento di costituire con i due negozi una garanzia ed attribuire irrevocabilmente il bene al creditore, soltanto in caso di inadempienza del mutuatario. Tra i negozi di mutuo e di compravendita si stabilisce uno stretto vincolo di interdipendenza che realizza, nella sostanza, un patto commissorio nullo per frode alla legge” . Più recentemente la Corte di legittimità ha statuito che: “la vendita con patto di riscatto o di retrovendita, anche quando sia previsto il trasferimento effettivo del bene, è nulla se stipulata per una causa di garanzia (piuttosto che per una causa di scambio), nell’ambito della quale il versamento del denaro, da parte del compratore, non costituisca pagamento del prezzo, ma esecuzione di un mutuo ed il trasferimento del bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria, capace di evolversi a seconda che il debitore adempia o non l’obbligo di restituire le somme ricevute, atteso che la predetta vendita, in quanto caratterizzata dalla causa di garanzia propria del mutuo con patto commissorio, piuttosto che dalla causa di scambio propria della vendita. Pur non integrando direttamente un patto commissorio vietato dall’art. 2744 c.c., costituisce un mezzo per eludere tale norma imperativa ed esprime perciò una causa illecita, che rende applicabile all’intero contratto la sanzione dell’art. 1344 c.c.” (Cass. civ., sez. II, 20/07/200 l, n° 9900).
In termini più chiari ed articolati ed in aderenza alla costruzione dottrinale delineata la Corte Suprema ha confermato il principio secondo cui: “il divieto del patto commissorio si estende anche al contratto preliminare di vendita ove siano provati sia la stipulazione del contratto di mutuo preesistente o coevo al contratto preliminare, sia il nesso di strumentalità tra i due negozi” (Cass.12.06.2009 n.13734).
Va de plano che, in mancanza di prova scritta e di testimonianze, non essendo stata dimostrata la simulazione invocata, il Giudice ha rigettato la sollevata eccezione ed ha ritenuto, di converso, di accogliere la domanda attrice solo per declarare la risoluzione del contratto, fermo restando la competenza del Tribunale fallimentare per quella del risarcimento dei danni.

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