Ai fini dell’indagine sulla complessa intelaiatura del decreto, ci preoccupiamo di esaminare l’art. 2 del D.L. n. 59/2016 (conv., con modifiche, in L. n. 119/2016), concernente il finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato.
E’ forte il sospetto che il tentativo del legislatore di rispettare il divieto del patto commissorio ex art. 2744 c.c., lasciato solo formalmente in vita, non sia riuscito, anzi si può ritenere che viene solo rafforzato il potere delle banche e si legittima l’usura reale, si concreta proprio quello che la norma vuole evitare, con forti profili di incostituzionalità.
Già alcuni Autori hanno ben descritto il meccanismo previsto dall’istituto di nuovo conio che sarà disciplinato dall’art. 48-bis del Testo Unico Bancario, costituente l’art. 2 del decreto legge n. 59 del 2016 (Busani, in Il Sole 24 Ore, 6/05/2016; Graziano, in Guida al Diritto, n. 23/2016).
La norma è monca, perché non tutela il debitore al momento della concessione del finanziamento. Infatti non è precisato, né affrontato, il delicato problema della sproporzione tra il valore del finanziamento e quello del bene dato in garanzia, quando viene stipulato il contratto. Il valore del bene in garanzia può essere anche il triplo o il quadruplo del finanziamento concesso.
La norma di tutto questo non si preoccupa.
Il legislatore, non disciplinando l’equilibrio, al momento (fondamentalmente decisivo) della confezione del contratto, tra il valore della res data in garanzia ed il finanziamento concesso, non preoccupandosi della relativa e sottesa proporzionalità, sposta solo al momento successivo della vendita la tutela del debitore, che perderà l’immobile e dovrà accontentarsi della sola eccedenza, scaturita dalla cautela marciana (se equa).
Ma in questo modo non è rispettato il divieto del patto commissorio.
Il fondamento del patto commissorio si ravvisa:
Per principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, il divieto del patto commissorio, sancito dall’art. 2744 c.c. si estende a qualsiasi negozio, ancorchè astrattamente di per sé lecito, che venga impiegato per conseguire il concreto risultato, vietato dall’ordinamento, di assoggettare il debitore all’illecita coercizione da parte del creditore, sottostando alla volontà del medesimo di conseguire il trasferimento della proprietà di un suo bene, quale conseguenza della mancata estinzione di un debito (Cass. n. 437/2009, Cass. n. 9466/2004, Cass. n. 1273/2005, Cass. n. 2285/2006, Cass. n. 2725/2007, Cass. n. 6969/2007, Cass. n. 13621/2007).
La sussistenza di un eventuale patto commissorio va soppesata al momento del contratto (forse al legislatore del D.L. n. 59/2016 questo è sfuggito), perché bisogna verificare se il creditore abbia ordito l’approfittamento dello stato di debolezza del debitore e l’annessa acquisizione di un bene, il cui valore non potrà mai essere compensato dall’eccedenza del patto marciano.
Potrà infatti accadere che la stima, anche se effettuata da un terzo, non possa supplire alla sproporzione detta. Potrà altresì verificarsi che il debitore non sia d’accordo con la detta stima, ma la norma prevede in questi casi che la banca diventi comunque proprietaria – iniquamente – e l’eventuale fondatezza delle doglianze del debitore siano possibili solo sull’eccedenza: sta di fatto che il debitore ha perduto già la res.
Se non vi è nessun controllo sul rapporto tra il valore dell’immobile ed il finanziamento concesso, il debitore sarà sempre sacrificato.
Se, per esempio, il finanziamento è di 100.000,00 euro ed il valore del bene è di 400.000,00 euro al momento della confezione del contratto, e tale importo non viene confermato ex post dallo stimatore, intanto la Banca diventa proprietaria del bene ed il povero debitore dovrà assumersi il rischio se ottenere o meno l’eccedenza, sobbarcandosi il relativo giudizio.
Ecco il vulnus della norma, la sua aporia.
Non sarebbe più giusto soppesare i valori al momento della confezione del contratto e vietare ab initio la sproporzione?
In questo caso saremmo in una condizione di perfetta parità e si eviterebbe qualsiasi fenomeno di usura reale, sanzionata dalla norma civilistica dell’art. 2744 c.c. e dall’art. 644 c.p.
L’incostituzionalità della norma che non ha contemplato il principio della proporzionalità, di cui sono imbevute tutte le pronunce della Corte Europea, si constata proprio al comma 7 dell’art. 2: “Qualora il debitore contesti la stima, il creditore ha comunque diritto di avvalersi degli effetti del patto di cui al comma 1 e l’eventuale fondatezza della contestazione incide sulla differenza da versare al titolare del diritto reale immobiliare”.
Cosa significa? Avvalersi degli effetti del patto ha come ricaduta che, senza il controllo del Giudice, la Banca diventa comunque proprietaria della res. Al debitore o al titolare del diritto immobiliare resta solo il diritto di vedersi riconosciuto un ipotetico ristoro sulla differenza che la Banca dovrà versargli, con tutti i rischi del caso.
In tal modo verrebbe evitato ab origine l’effetto distorsivo del patto commissorio.
Se invece si intendesse spostare la verifica dell’eventuale sproporzione ad un momento successivo (quello, per intenderci, di contestazione della stima, per l’applicazione della cautela marciana), dovrebbe proporsi una modifica del comma 7, a tenore del quale: “Qualora il debitore contesti la stima, il creditore ha comunque diritto di avvalersi degli effetti del patto di cui al comma 1 e l’eventuale fondatezza della contestazione incide sulla differenza da versare al titolare del diritto reale immobiliare”.
Dovrebbe invece prevedersi, per il caso di contestazione sulla stima (che può nascere anche per una sproporzione tra i valori in contesa), che la banca non possa conseguire la proprietà dell’immobile, da ottenersi semmai solo dopo un accertamento giurisdizionale.
Dunque il comma 7 dovrebbe assumere più o meno il seguente taglio: “Qualora il debitore contesti la stima, il creditore avrò comunque diritto di conseguire la proprietà dell’immobile ed il debitore la dovuta eccedenza, ma solo dopo l’accertamento della fondatezza della contestazione da parte del giudice che ha nominato il perito”.
L’accertamento del giudice, sia ex ante, che ex post, eviterebbe qualsiasi forma di abuso di potere, a tutela della parte più debole: il debitore.
Non si spiega il fatto che la norma, in modo non paritetico, solo al comma 10 preveda l’intervento del giudice, ma solo se si tratta di un diritto reale immobiliare per il quale già sia in corso l’esecuzione forzata. In tal caso l’accertamento dell’inadempimento del debitore è compiuto, su istanza del creditore, dal giudice dell’esecuzione e il valore di stima è determinato dall’esperto nominato dallo stesso giudice. Il giudice dell’esecuzione provvede all’accertamento dell’inadempimento con ordinanza, fissando il termine entro il quale il creditore deve versare una somma non inferiore alle spese di esecuzione e, ove vi siano, ai crediti aventi diritto di prelazione anteriore a quello dell’istante ovvero pari all’eventuale differenza tra il valore di stima del bene e l’ammontare del debito inadempiuto. Avvenuto il versamento, il giudice dell’esecuzione, con decreto, dà atto dell’avveramento della condizione. Il decreto è annotato ai fini della cancellazione della condizione, a norma dell’art. 2668 c.c. Alla distribuzione della somma ricavata si provvede in conformità alle disposizioni di cui al libro terzo, titolo II, capo IV del codice di procedura civile. Il comma 10 si applica, in quanto compatibile, anche quando il diritto reale immobiliare è sottoposto ad esecuzione a norma delle disposizioni di cui al d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602.
Già in passato è stato giustamente rilevato che attraverso il controllo del giudice (assente nella norma de qua) si determina un intervento eteronomo, laddove il principio dell’autonomia privata non è sufficiente ad assicurare giusti rapporti (Bianca, Diritto Civile- Il contratto, 33).
Autorevolmente è stato sostenuto, altresì, che il ruolo della solidarietà acquista un rilievo fondamentale nelle fattispecie connotate da una disparità di forza contrattuale tra le parti: in queste circostanze aumenta l’importanza del controllo dell’ordinamento sull’atto di autonomia, perché evidentemente la debolezza contrattuale può indurre a concludere un contratto a condizioni inique. Ebbene, di fronte a fattispecie caratterizzate da uno squilibrio nella fase genetica (che è proprio il punto debole della norma) si deve reclamare la presenza, nell’ordinamento, di un’istanza generale tendente all’intervento eteronomo sull’atto privato, al fine di controllare ed eventualmente ristabilire l’equilibrio nella fase esecutiva.
Il soggetto che deve ricorrere al credito si trova normalmente in una situazione di ontologica debolezza rispetto a chi concede il credito. Pertanto, nei contratti di finanziamento sembra implicito il pericolo di uno squilibrio della forza contrattuale delle parti. Tale squilibrio può evidentemente tradursi in un regolamento eccessivamente gravoso per la parte più debole, sicché a questo rischio l’ordinamento reagisce con un insieme di disposizioni che trovano la loro giustificazione nel principio costituzionale di solidarietà: tra queste vengono in rilievo le norme in materia di usura e quelle che pongono il divieto del patto commissorio (N. Cipriani, Patto commissorio e patto marciano proporzionalità e legittimità delle garanzie, in Edizioni scientifiche Italiane, Università degli studi del Sannio, Pubblicazioni della facoltà di economia sezione giuridico-sociale, Benevento, 2000, 151-157).
E’ quindi sicuramente atteso un intervento della Corte Costituzionale a tutela della parte più debole: il debitore.
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